Quinta mostra ad essere ospitata presso la sede di Altri Colori e del Consorzio Parsifal di Frosinone, A scena aperta racconta il teatro realizzato nel corso di molti anni da ragazze e ragazzi, donne e uomini frequentanti i centri di numerose cooperative sociali socie del Consorzio Parsifal.
Così come il Parsifal cerca di mettere insieme le migliori esperienze di impresa cooperativa del centro-sud Italia, così A scena aperta ha cercato di legare in un’unica narrazione le migliori performance teatrali realizzate, e documentate attraverso la fotografia, dalle cooperative consorziate. Tra molto materiale, sono state selezionate 32 foto: un’arte, quella fotografica, che racconta un’altra arte, quella scenica.
Altri Colori si presenta alla mostra con 7 scatti realizzati dal fotografo Alessandro Marchionne il 20 giugno 2013 nel Teatro Tres Tabernae di Cisterna di Latina (LT) durante lo spettacolo teatrale “La Gabbianella e il Gatto” realizzato dagli ospiti del Centro Diurno “L’Agorà” di Cisterna di Latina (LT) con la regia di Fabrizio Di Stante.
L’esposizione, curata da Donato Marrocco, sarà aperta al pubblico dal 28 febbraio al 29 maggio 2020 – inaugurazione venerdì 28 alle ore 15:00 –
LA CARICA RIVOLUZIONARIA DEL TEATRO SOCIALE, PER NOI
«Il teatro sociale d’arte – ha scritto il critico Andrea Porcheddu – ha in sé la carica rivoluzionaria di chi sa scardinare preconcetti e pregiudizi, di chi non si arrende al perbenismo borghese, di chi cerca – come afferma il poeta e attore Gigi Gherzi – più il “senso” che non il “consenso”».
Per questo sta rappresentando negli ultimi anni uno degli ambiti più interessanti della produzione teatrale, anche di qualità: non solo per le originali e intrinseche potenzialità poetiche e drammaturgiche, quanto per l’iper-competenza richiesta a chi lo approccia. Gente che deve essere capace di trattare il disagio non meno di quanto sa fare con l’arte scenica.
L’epoca che viviamo, etichettata in molti modi, è caratterizzata dal consumo di visione. Consumiamo – usiamo e gettiamo di continuo – la visione del nostro presente allargato, all’apparenza interminabile. Visione di uno spettacolo imbastito – a tanto arriva l’illusione – apposta per noi.
«Finirò col credere che gli dei -, appuntava Georges Simenon su un suo diario di viaggio – abbiano decretato la morte di un uomo solo per offrirmene lo spettacolo». Non potremmo dire la stessa cosa delle catastrofi cui assistiamo, insensibili, indifferenti, tutti i giorni, grazie a schermi sempre più evoluti, sempre più strabilianti?
E allora se c’è qualcosa di rivoluzionario nel teatro sociale, è proprio il rifiuto della centralità (e del consumo) dello spettacolo.
Lo scopo primario del teatro sociale per noi non è lo spettacolo fine a se stesso, lo spettacolo per lo spettacolo. “The show must go on!”: non sentirai mai questo motto venire da noi.
Neanche gli spettatori, il pubblico, contano. Sì, gli applausi sono importanti, importantissimi, ma gli spettatori, gli adulti produttivi, quelli normali, sono pregati solo di assistere. Facciano, per l’appunto, gli spettatori, gli osservanti passivi: guardino gli attori, li ascoltino, li apprezzino e li applaudano (molto). Non ci servono le loro critiche, i loro discorsi, le loro idee. Ci servono soltanto le loro mani plaudenti e dolenti.
Quello che conta davvero, per noi, è ciò che avviene intorno allo spettacolo, durante le prove.
È la messinscena: un processo di tensione collettiva, di apprendimento, di educazione estetica. Sul palco, durante la messinscena, si impara a vedere le cose per come sono, si impara a riconoscersi, a gestire i gesti, le emozioni, le attese, gli eventi che fanno svoltare le storie.
Quel che importa non è il traguardo di uno spettacolo compiuto, ma la strada per arrivarci. Sono le relazioni sul palco, tra gli attori, il regista, lo scenografo, il costumista, tra tutti quelli che fanno la compagnia, tutti quelli che partecipano alle elaborazioni, alle scelte, agli allestimenti, alle tournee.
Quel che conta non è l’abilitazione delle capacità, ma la loro liberazione – più che diverse, le capacità dei nostri attori sono infatti state represse, frenate, nascoste – liberazione delle energie attraverso l’esercizio, la memoria, il mettersi in gioco, l’improvvisazione, la sperimentazione, lo slancio, l’espressività, la vita comunitaria.
«Veramente rivoluzionaria – ha scritto il filosofo Walter Benjamin, conquistato dal teatro proletario dei bambini di Asja Lācis – non è la propaganda delle idee, che stimola ora qua ora là ad azioni ineffettuabili e finisce con la prima considerazione a mente fredda fatta all’uscita del teatro. Veramente rivoluzionario è il segnale segreto dell’avvenire, che parla dal gesto infantile».
LA FOTOGRAFIA SCENICA: NARRAZIONE E/O EMOZIONE
Riuscire ad “inquadrare” il vero obiettivo di un fotografo di scena è compito arduo. Verrebbe da dire: di narrare il dietro le quinte di un film o di uno spettacolo teatrale, stare lì sul set cinematografico o nel backstage del teatro ed avere la prontezza di racchiudere in una sequenza di scatti gli equilibri che si instaurano tra tutti coloro che concorrono allo spettacolo. Un mondo nascosto al pubblico che si appresta a farsi coinvolgere dalla storia in scena, regista, truccatore, tecnico delle luci, e gli stessi attori che hanno, un altro “occhio” che li osserva.
Questa narrazione risulterebbe come una storia nella storia, un film nel film, insomma un doppione con un altro vestito, ma pur sempre un doppione! Non si può lasciare in secondo piano l’emozionarsi per riuscire ad emozionare lo spettatore deve essere catturato.
Nei lavori che proponiamo in questa mostra, traspare invece, da parte dei fotografi di scena, un approccio diverso da quello di voler semplicemente documentare lo svolgimento di azioni in sincrono. Catturare l’emozione provata dall’attore nel recitare la parte, il feeling tra sceneggiatore ed attore che trae insegnamento del linguaggio del corpo nella recitazione, lo stupore degli interpreti nel vedersi e non più “nell’immaginarsi” nella parte.
Le foto di A scena aperta sono frutto di una selezione basata su questa ricerca, che lascia il passo allo stupore a scapito dell’equilibrio di forme e forze.